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Resoconto del I modulo del Corso di Formazione “La Giustizia Riparativa e le Vittime di Reato” per mediatori penali svoltosi sabato 18 marzo 2017 presso la sede Caritas Bergamo.


La vittima del reato, “da ospite inatteso a catalizzatore 
del processo penale
Nell’ambito del Corso di Formazione per Mediatori Penali, promosso per l’anno 2017 dagli Uffici di Giustizia Riparativa e di Mediazione di Bergamo e Mapello, la Vittima di reato è al centro di un interessante approfondimento, articolato su quattro moduli formativi, rispettivamente dedicati a: “Tutela delle Vittime: aspetti giuridici. Direttiva 2012/29/UE e Decreto Legislativo 212/2015 (Roberta Ribon), “Servizi di Giustizia Riparativa nella Direttiva Vittime” (Adolfo Ceretti), “Le violenze di genere. C’è possibilità per la mediazione?” (Anna Lorenzetti), “La cura delle vittime nella comunità riparativa” (Ivo Lizzola).

Di seguito, un estratto dell’intervento formativo del 18 marzo u.s., richiestomi in merito alla tutela delle vittime sotto il profilo giuridico, sia a livello sovranazionale che nazionale.

Ebbene, la disamina degli attuali aspetti di tutela giuridica delle vittime di reato non può non prendere le mosse da una ricognizione del ruolo della vittima nel processo penale, storicamente connotata da una progressiva emarginazione, che l’ha confinata al ruolo di mera persona offesa, portatrice tutt’al più di interessi civilistici passibili di ristoro economico in caso di condanna dell’autore di reato.

La “grande dimenticata” del processo penale, come è stata chiamata la vittima da diversi autori italiani e stranieri, è stata nel tempo disarmata e neutralizzata nei suoi fisiologici sentimenti di vendetta, per rendere possibile il perseguimento della pace tra i consociati attraverso la previsione di una pena ristabilizzatrice dell’ordine sociale sovvertito dal reato.

In questo processo di graduale confino della vittima, cui ha fatto da contraltare la speculare sottrazione del reo dall’arbitrio punitivo, si è consolidata la dialettica tra lo Stato, da una parte, e l’autore del reato, dall’altra, una dialettica processuale totalmente reocentrica.

Ma, se la sottrazione del reo dalla vendetta privata e la sottoposizione dello stesso alla pena finalizzata alla rieducazione rappresentano uno strepitoso progresso di civiltà giuridica, la  sensibilità moderna non può non evidenziare i limiti dell’attuale sistema penale, ad oggi non più rispettoso della dignità della vittima. Troppo spesso la vittima del reato non è adeguatamente protetta, se non addirittura vittimizzata, da quello stesso processo che se ne serve per accertare il reato, salvo poi – talvolta a distanza di anni – tentare di “riabilitarla” in termini di monetizzazione della sofferenza, nei limiti della rara capienza dell’offensore.

Una vittima così vessata e violata non può che esprimere istanze giustizialiste cariche di rancore: processi sommari e pene esemplari.

Queste istanze, nelle quali spesso la collettività si identifica e che, proprio per tale ragione, orientano le politiche penali/criminali, rischiano di minare quel grandioso traguardo di civiltà che è rappresentato appunto dal necessitato ritorno della vittima nel processo penale.

L’Europa per prima ha avvertito i rischi connessi ad una protratta emarginazione delle vittime dalla scena processuale ed ha indicato un chiaro cambiamento di rotta, occupandosi della loro dignità umana, rafforzandone i diritti, il sostegno e la tutela, in particolare nei procedimenti penali.

Se oggi la vittima del reato riscopre la centralità della sua posizione durante tutto l’arco procedimentale è grazie alle istanze europeiste, sintomatiche di una mutata sensibilità per il portato di sofferenza della stessa.

Nonostante le generali ritrosie ad una infiltrazione delle istanze della vittima nel processo penale – ritrosie basate essenzialmente sul timore di un recupero di pulsioni giustizialiste all’interno del processo penale nonchè di una privatizzazione dello stesso – sta ormai maturando la consapevolezza che un processo che si voglia definire giusto non solo debba tutelare gli interessi della collettività e del reo, ma anche garantire il rispetto della persona offesa e la tutela delle sue aspettative in ordine al reato, facendone un vero e proprio attore del processo penale.

La Direttiva 2012/29/UE rappresenta uno degli interventi più significativi dell’Unione Europea in questo settore. Essa costituisce un vero e proprio Statuto dei diritti delle vittime, un corpus juris di considerazioni e diritti fondamentali in materia di persone offese dal reato.

Questo corpo normativo, da un lato, costituisce una riaffermazione di nozioni già contenute nella precedente Decisione Quadro 2001/220/GAI che viene a sostituire, dall’altro, introduce elementi di novità, nell’ottica di armonizzare la disciplina degli Stati membri dell’Unione in materia di tutela delle vittime di reato durante tutto il procedimento penale ed oltre.

La direttiva 2012/29/UE giunge al termine di un percorso normativo europeo scandito in vari “step”, che ha preso l’avvio con il c.d. Programma di Stoccolma (che ha delineato le priorità dell’Unione europea in tema di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010 -2014) e che ha conosciuto un vero e proprio piano di azione con l’adozione della c.d. «tabella di marcia di Budapest».

Questo lungo percorso di ampliamento dei diritti e delle facoltà delle vittime è stato costellato dall’adozione di numerosi e significativi interventi normativi mirati a tutelare le vittime di determinate tipologie di delitti, fra cui la Convenzione di Istanbul, la Convenzione di Lanzarote, la Direttiva 2004/80/CE sull’indennizzo delle vittime di reato, la Direttiva 2011/36/UE sulla tratta degli esseri umani, la Direttiva 2011/92/UE sull’abuso, lo sfruttamento e la pornografia minorile, la Direttiva 2011/99/UE sull’ordine di protezione europeo, sino alla già menzionata Decisione Quadro 2001/220/GAI sulle vittime nel procedimento penale.

Tutti questi interventi confermano come la progressiva ammissione della vittima nella dinamica processuale e, più in generale, la mutata attenzione verso la posizione di quest’ultima in ambito penale costituiscano una priorità assoluta dell’Unione.

In particolare, l’Unione europea, con la direttiva in esame, è intervenuta al fine di stabilire norme minime in materia di diritti, protezione e assistenza alla vittima di reato, reputando che tale obiettivo non potesse essere raggiunto in maniera sufficiente dagli Stati membri (cfr. considerando 67), bensì a livello dell’Unione.

Le norme minime, in definitiva, definiscono non più solo cosa l’Europa propone, ma cosa l’Unione Europea oggi ritiene indefettibile a proposito della tutela della vittima e della riparazione verso la vittima nel contesto penale, muovendo da un generale ripensamento del reato, visto non più solo come torto inferto alla società, ma anche come violazione dei diritti individuali delle vittime (cfr. considerando 9) che, come tali, dovrebbero essere “riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni di sorta”.

Parola chiave della Direttiva 2012/29/UE è certamente la parola vittima, una parola che divide in ambito penale, perchè evocativa di connotazioni emotive, terreno quantomai scivoloso nel mondo giuridico (non a caso il legislatore penale italiano ha scelto di continuare a privilegiare l’espressione “persona offesa”).

Nel contesto della direttiva 2012, vittima è “una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato”. Innovando rispetto alla precedente decisione quadro, essa giunge a ricomprendervi anche la c.d. vittima indiretta, ovvero il “familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”, laddove per familiare si intende, oltre al coniuge, anche il convivente more uxorio, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle e le persone a carico della vittima.

La direttiva, dunque, riconosce la famiglia di fatto (cfr. art. 2) mentre esclude la persona giuridica dal proprio ambito di applicazione.

Il legislatore europeo, infatti, ha introdotto un sistema di tutela a favore delle sole persone fisiche data la loro maggiore vulnerabilità e la natura degli interessi in gioco, la vita e l’integrità fisica, che le rendono oggettivamente diverse dalle persone giuridiche.

Il testo della normativa europea è diviso in due parti: una prima parte enuncia i principi posti a presidio della tutela della vittima, in materia di assistenza, protezione, diritto di partecipare al processo e giustizia riparativa; ad essa si accompagna la volontà di ottenerne un’attuazione effettiva da parte degli Stati che non ammette eccezioni.

Una seconda parte declina siffatti principi in diritti, accompagnandosi alla richiesta rivolta agli Stati Membri di darvi attuazione interna impiegando criteri puntuali.

Così, ad esempio, il generale diritto della vittima di accedere alla giustizia dovrà essere reso effettivo mediante la determinazione a livello di legislazione nazionale di precisi criteri di partecipazione al procedimento penale.

Il Capo I della Direttiva rende esplicito l’obiettivo per il quale gli Stati Membri debbano assicurare che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensiibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria in tutti i contatti con i servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa o con l’autorità competente operante nell’ambito di un procedimento penale.

Il Capo II sancisce anzitutto il diritto della vittima a ricevere informazioni.

Il Capo III è dedicato ai diritti di partecipazione della vittima al procedimento penale nonché al diritto di accesso, a precise condizioni, ai servizi di giustizia riparativa.

Con riferimento alla Giustizia Riparativa, in particolare, la Direttiva Vittime offre una definizione più ampia di quella accolta dalla precedente Decisione Quadro, identificandola in “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, previo consenso libero ed informato, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”.

La direttiva chiede agli Stati Membri di creare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa (tra i quali comprende la mediazione, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi), apprestando garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta e l’intimidazione.

Dalla lettura della direttiva si evince che a tali forme alternative si dovrebbe ricorrere soltanto nell’interesse della vittima, oltre che col suo consenso libero, informato e sempre revocabile. L’obiettivo dichiarato è, infatti, la salvaguardia degli interessi e delle esigenze della vittima, la riparazione del pregiudizio da essa subito e la prevenzione di ulteriori danni.

Per questa ragione, la direttiva richiede come condizione per il ricorso ai servizi di giustizia ripartiva che l’autore del reato riconosca prima i “fatti essenziali del caso”.

Gli Stati dovranno stabilire le condizioni di accesso a tali servizi tenendo conto della natura e della gravità del reato, del livello del trauma causato, degli squilibri nella relazione tra vittima e autore, e della maturità e capacità intellettiva della vittima, e fornire alla vittima un’informazione completa sul procedimento alternativo e sulle sue conseguenze.

E ancora. Il Capo IV presidia la protezione delle vittime ed il riconoscimento di quelle che rivelano specifiche esigenze di protezione.

Per alcune vittime, infatti, potrebbero venire in rilievo specifiche esigenze di tutela; per tale ragione è necessario che siano sottoposte ad una valutazione individuale per determinare se ed in quale misura trarrebbero beneficio da misure speciali nel corso del procedimento. Alcune categorie di vittime che si presume necessitino di particolare attenzione vengono precisamente individuate: si tratta dei minori, dei disabili, delle vittime del terrorismo, delle vittime di violenza di genere e di violenza nelle relazioni strette.

Il concetto di vulnerabilità ha un’importanza centrale; ad esso è dedicata particolare attenzione, soprattutto con riferimento all’esigenza di una valutazione individuale definita come “necessaria per individuare le specifiche esigenze di protezione e determinare se in quale misura trarrebbero beneficio da misure speciali nel corso del procedimento penale essendo particolarmente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria”.

La volontà dunque della direttiva, in linea con la sua natura di statuto dei diritti delle vittime, è stata proprio quella di offrire una tutela quanto più estesa alle persone offese dal reato, cosicché la valutazione della vulnerabilità di una vittima deve essere fatta caso per caso basandosi sulle esigenze di ciascuna singola persona.

Il Capo V, da ultimo, è dedicato alla necessità di una formazione generale e specialistica per chiunque entri in contatto con la vittima; agenti di polizia, magistratura, avvocati, personale giudiziario, operatori dei servizi di assistenza vittime e di giustizia riparativa.

Nel nostro Paese, sino a prima del decreto legislativo 212/2015, finalizzato alla attuazione della Direttiva 2012/29, è stato lo strumento dell’interpretazione conforme alle indicazioni convenzionali a permettere al diritto interno di supplire alle esigenze di tutela degli interessi delle vittime di reato.

Con il Decreto 212/2015, invece, il legislatore delegato è stato chiamato a trasporre una disciplina di carattere più generale; tuttavia, detto intervento si è focalizzato solo su alcuni aspetti indicati dalla direttiva, e non su altri, con ciò mancando la preziosa occasione di realizzare una riforma organica e strutturata in tema di tutela della vittima di reato.

Innanzitutto, quanto al concetto di vulnerabilità, il legislatore delegato ha optato per identificare immediatamente dei criteri da cui è possibile desumersi lo status di vulnerabilità, senza procedere ad introdurre la norma con una definizione più aperta e indefinita e solo in un secondo momento prendendo in considerazioni certi criteri e certi tipi di reato.

Nulla è poi detto circa gli strumenti in materia di giustizia riparativa: il d.lgs, infatti, non vi accenna neppure ed anzi, appare evidente l’esistenza di una certa diffidenza di fondo del sistema penale italiano che, quando è ricorso a misure riparative, lo ha fatto unicamente per ragioni deflattive; per poter aprirsi alla via della giustizia riparativa il modello italiano dovrebbe ripensare il ruolo della vittima del reato.

Del resto, persino la persistente errata traduzione dalla lingua inglese ufficiale a quella italiana dell’art.48 della Convenzione di Istanbul è fonte di enormi equivoci tra gli stessi addetti ai lavori.

Benché, infatti, il citato art.48, intitolato “Prohibition of mandatory alternative dispute resolution processes or sentencing”, prevede che “Parties shall take the necessary legislative or other measures to prohibit mandatory alternative dispute resolution processes, including mediation and conciliation, in relation to all forms of violence covered by the scope of this Convention”, nella versione ‘ufficiale’ (ma non vincolante) in lingua italiana della Convenzione, l’art. 48 recita testualmente: “Divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie”. E precisamente, “Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”.

La norma, così formulata, è davvero irragionevole e si pone in contraddizione con altri strumenti internazionali che invece raccomandano l’adozione della giustizia riparativa.

Se, dunque, si attendeva un mutamento di scenario nel diritto italiano ad opera del decreto di attuazione della direttiva 2012/29/UE si rischia di rimanere delusi: il processo penale italiano continua a negare una strada alternativa e/o complementare a quella tradizionale, senza interrogarsi sulla possibilità che, in determinati casi e nel rispetto di precisi presidi di tutela, il ricorso a forme alternative di risoluzione dei conflitti possa soddisfare  le esigenze di cui sono portatrici le vittime più di quanto il processo stesso possa fare.

Il problema attiene ad un entroterra culturale non favorevole alle istanze della vittima su cui tali diritti andranno a costruirsi: sebbene tali nuovi diritti siano effettivamente sintomo di una rinnovata sensibilità giuridica del legislatore italiano, essi rischiano di essere trascurati a causa di un’incapacità del sistema di sostenere tutte le implicazioni pratiche (anche di tipo economico) che ne conseguono.

Ciononostante, i fermenti di un pensiero nuovo si sono raccolti in occasione degli Stati Generali della Esecuzione Penale. Su mandato del Ministro della Giustizia, precisamente, duecento esperti del sistema sanzionatorio, del carcere e delle misure alternative alla detenzione si sono confrontati e hanno lavorato, raggruppati in 18 tavoli di lavoro su altrettante aree tematiche relative alla esecuzione della pena.

Il Tavolo 13, dedicato a “Giustizia Riparativa, Mediazione e Tutela delle vittime di reato”, si è occupato di allineare le esperienze di Restorative Justice sviluppate in Italia a quelle di altri Paesi europei ed extraeuropei, tenendo quale punto di orientamento i principi e le disposizioni contenuti proprio nella Direttiva 2012/29/UE, e ciò al fine di proporre modelli orientati alla vittima / collettività, promuovere percorsi di formazione ed una cultura riparativa nei contesti scolastici ed universitari.

Si tratta di un patrimonio prezioso, un tracciato entro cui continuare a lavorare…